Intelligenza Artificiale e istruzione universitaria

L’Intelligenza Artificiale sta entrando nei nostri corsi universitari con una rapidità che fino a pochi anni fa sarebbe sembrata fantascienza. Non è un’aggiunta marginale, né un semplice strumento utile per velocizzare qualche passaggio. È un cambiamento che riguarda le fondamenta stesse dell’insegnamento, soprattutto in discipline come l’economia, dove dati, modelli e scenari sono parte essenziale del metodo di lavoro. La novità più significativa non è che gli studenti possano generare grafici in pochi secondi o chiedere a un assistente digitale di riformulare un concetto. La vera trasformazione è nel modo in cui si costruisce l’apprendimento: meno lineare, meno uniforme, più dinamico e più adattabile.

Chi insegna economia sa bene quanto sia difficile bilanciare le differenze di preparazione tra gli studenti. Alcuni arrivano già forti in matematica o statistica, altri faticano con le basi. C’è chi comprende i modelli astratti con naturalezza e chi ha bisogno di molti più passaggi intermedi. L’IA rende possibile affrontare questa eterogeneità in modo nuovo, offrendo spiegazioni personalizzate e modulando la complessità del contenuto sulla base delle difficoltà individuali. Questo non sostituisce il lavoro del docente, anzi lo valorizza: liberati dal compito di ripetere definizioni e procedure standard, possiamo concentrarci sul cuore dell’insegnamento, cioè sul far pensare gli studenti.

La parte più interessante del cambiamento riguarda il ruolo del docente. Per decenni l’università ha funzionato con un modello che metteva al centro la trasmissione frontale del sapere. Oggi questo modello non basta più. L’IA fornisce informazioni, esempi e persino bozze di ragionamento. Quel che manca, e che resta competenza esclusiva dell’insegnante, è la capacità di dare forma a un percorso intellettuale coerente. È il docente a interpretare gli errori degli studenti, a capire da dove nascono, a individuare gli snodi concettuali, a insegnare cosa significa davvero ragionare in termini causali, costruire un modello, distinguere un risultato plausibile da un errore elegante ma infondato.

Con l’IA, il tempo in aula diventa molto più prezioso. Non serve dedicarlo alle parti meccaniche di un corso, che possono essere gestite fuori dall’aula con strumenti intelligenti. Quando ci si vede di persona, si può lavorare su ciò che richiede confronto, intuizione, giudizio: le implicazioni dei modelli, l’interpretazione dei dati, le domande che non hanno una risposta unica, i dilemmi di policy, le dinamiche strategiche. L’economia torna a essere un laboratorio intellettuale, non un percorso a tappe fisse.

C’è poi un’altra dimensione che spesso non viene colta subito, ma che ha un valore enorme: l’IA costringe gli studenti a diventare più critici. I modelli generativi producono risposte convincenti ma non sempre corrette; sanno usare un linguaggio impeccabile ma possono proporre analisi fuorvianti. In un contesto così, gli studenti devono imparare a verificare, a controllare le fonti, a riconoscere la coerenza interna di un ragionamento. Devono, in altre parole, sviluppare una competenza epistemica più profonda. Non basta più conoscere una definizione: occorre saper valutare il processo che porta a una conclusione. Questo è un cambiamento pedagogico decisivo, e nessuna macchina lo può sostituire.

Infine, l’IA introduce un elemento di giustizia educativa. In corsi sempre più eterogenei, dove gli studenti arrivano da percorsi scolastici e background molto diversi, la tecnologia può offrire un sostegno personalizzato e continuo, disponibile in ogni momento. Non elimina le differenze, ma permette di ridurne l’impatto, offrendo a tutti la possibilità di recuperare lacune e approfondire ciò che non è chiaro senza paura di esporsi o di rallentare il gruppo.

L’università, quella di qualità, non sta diventando meno umana. Sta diventando più umana nel senso più interessante del termine, perché mette al centro ciò che le macchine non possono fare: guidare la formazione del pensiero, stimolare la curiosità, coltivare il dubbio, costruire mappe concettuali solide. L’economia, con il suo equilibrio tra astrazione e realtà, tra modelli e scelte, è uno dei campi dove questo potenziale appare più evidente.

L’IA non sostituisce il docente. Trasforma il docente in ciò che avrebbe dovuto essere sempre: un architetto dell’apprendimento, capace di costruire percorsi complessi, interpretare gli errori, creare connessioni e allenare le competenze che contano davvero. Chi saprà abbracciare questa trasformazione potrà offrire ai propri studenti un’esperienza più ricca, più stimolante, più formativa. E l’università, invece di temere la tecnologia, potrà finalmente usarla per avvicinarsi alla sua missione più autentica: insegnare a pensare.

Dismal Science?

In 2004 I started my PhD in Economics and one of the first things I have learned is that economists are not famous for their sense of humor. We have a tradition of bad jokes that make little sense for people outside our departments. Here an example:

Two economists are walking down the street when they see someone parking a really nice car. They stop to look at it, and after a bit, one of the economists says, “I’d like to buy a car like that.” To which the other economist replies, “No, you wouldn’t.”

[That’s it. This is the joke. If you do not find this funny you agree with me.]

But bad jokes is not the reason why Economics is described as the “dismal science”. The origin of this definition is 170 years old.

Not a ‘gay science,’ I should say, like some we have heard of; no, a dreary, desolate and, indeed, quite abject and distressing one; what we might call, by way of eminence, the dismal science.

This quote come from the historian Occasional Discourse on the Negro Question (1849) by Thomas Carlyle. Carlyle studied the labor situation the West Indies. At that time white planters were complaining that the emancipation of the slaves was an obstacle to their business because they were unable to obtain enough labour. Carlyle thought that coercion, not the market forces of demand and supply, should regulate the labor according to “their mutual duties” (to know more read here).

 

 

The Pareto Principle

The Pareto principle (or the 80/20 rule) says that roughly 80% of the effects come from 20% of the causes. This principle got its name from the Italian economist Vilfredo Pareto, who showed that in 1906 approximately 80% of the land in Italy was owned by 20% of the population. He then carried out surveys on a variety of other countries and found to his surprise that a similar distribution applied.

Many natural and social phenomena follow a Pareto distribution. For instance, 20% of the pea pods produce approximately 80% of the peas, 20% of drivers cause 80% of all traffic accidents, 20% of patients use 80% of health care resources, 20% of criminals commit 80% of crimes, and 20% of infected individuals are responsible for 80% of transmissions of contagious diseases. We can observe this rule even in our daily life: we wear 20% of clothes 80% of times, 20% of items in our cart amounts to 80% total grocery bill, we use 80% of the times 20% of the apps in our smart phones and tablets.

The value of the Pareto Principle is in reminding us to stay focused on the 20 percent that matters. Of all the tasks performed throughout the day, only 20 percent really matter.

In the book 80/20 Principle (Link), you can read more about the Pareto Principle and its applications. There are interesting stories and ideas for applications from life to business. I love this principle because it forces you to reflect about your life and what you do daily. You may realize you are wasting your time in activities that are not productive, important or fun. You can start by finding out what those 80% activities are for you, and what are the other 20% of activities that produce 80% of your result, happiness and meaning. Once you have done this, double down on those efforts as much as possible and then repeat the process.


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