Alcune frasi sembrano ovvie, finché non provi davvero a seguirle. “Scopri cosa funziona e fallo” è una di queste. È una regola così semplice -quasi banale- che la mente tende a scivolarci sopra, come se non potesse contenere nulla di profondo. E invece è una formula per il successo: curiosità + disciplina.
Scoprire cosa funziona significa comportarsi come uno scienziato — anche fuori dal laboratorio. In fondo, è quello che faccio per mestiere: sviluppo un’idea, la metto alla prova, guardo i dati, correggo il modello. Ma col tempo mi sono accorto che lo stesso metodo funziona anche nella vita quotidiana. La differenza tra una buona e una cattiva giornata, tra sentirsi lucidi o svuotati, spesso si riduce a un piccolo esperimento riuscito. Per esempio, dopo anni di prove, ho scoperto che la colazione giusta per me è una combinazione di yogurt greco, pane con burro di arachidi e tè verde. Non è una rivelazione spirituale, è solo un dato. Ci ho messo del tempo per capirlo, cambiando una variabile alla volta. E ultimamente sto testando mirtilli rossi e semi di chia da aggiungere allo yogurt. Lo stesso vale per tutto nella mia quotidianità: l’integratore che mi dà più energia, il colore della polo che si abbina più facilmente e mi fa sentire meno a disagio, la routine e gli strumenti tecnologico che mi mantengono più produttivo. Faccio mini esperimenti per migliorare le mie giornate.
Viviamo come se le grandi decisioni fossero le uniche importanti, ma la verità è che le piccole scelte quotidiane — il modo in cui inizi la giornata, cosa mangi, dove lavori, come organizzi il tempo — determinano gran parte della qualità della tua vita. Scoprire cosa funziona, in questo senso, è un atto di curiosità metodica: un modo per osservare se stessi come un sistema che si può migliorare, un po’ alla volta. La curiosità è la parte facile, almeno per chi ama imparare. Nel mio caso, salto continuamente da un tema all’altro: un’idea filosofica, un evento storico, un nuovo articolo scientifico, una teoria che prova a spiegare il comportamento umano in modo diverso. Mi interessa tutto ciò che promette un piccolo spostamento di prospettiva.
Ma se c’è una cosa che ho imparato, è che la curiosità senza applicazione evapora in fretta. Serve disciplina per trasformare un’intuizione in abitudine. Molti trovano ciò che funziona. Pochi continuano a farlo. Perché? Perché fare ciò che funziona richiede costanza, e la costanza è noiosa. Non c’è il brivido della scoperta, non ci sono nuove idee. C’è solo ripetizione. Ma è proprio la ripetizione che trasforma una buona intuizione in un risultato stabile. La mente tende a cercare novità; il miglioramento, invece, ha bisogno di iterazione. È un po’ come nell’economia sperimentale: nessun risultato vale finché non è replicabile. La disciplina è la parte silenziosa del progresso. Non attira l’attenzione, ma accumula risultati. È ciò che permette alla curiosità di non disperdersi.
La curiosità apre le porte; la disciplina le attraversa ogni giorno, anche quando non ne hai voglia. Una senza l’altra non funziona: l’esploratore senza metodo si perde, il metodico senza curiosità si spegne. Il segreto è nell’equilibrio tra le due come due ballerini che bilanciano i loro corpi con il movimento reciproco. Ci sono momenti per esplorare e momenti per consolidare. È un ciclo: provi, osservi, adatti, ripeti.
È un approccio evolutivo, come il kaizen giapponese o come il codice che riscrivi ogni volta un po’ meglio. Alla fine, “scopri cosa funziona e fallo” non è un motto da incorniciare. È un algoritmo. Provi, impari, correggi, ripeti. Ogni esperimento — grande o piccolo — riduce l’errore. Ogni abitudine consolidata libera energia mentale per la prossima esplorazione. E forse è tutto qui il segreto del miglioramento continuo: non smettere mai di imparare, e non smettere mai di applicare ciò che hai imparato.
Ogni giorno siamo testimoni di un progresso che sembra inarrestabile. Nuovi smartphone, intelligenze artificiali sempre più potenti, scoperte mediche che cambiano la vita. Diamo quasi per scontato che il futuro sarà tecnologicamente più avanzato del presente. Ma questa esperienza di crescita costante è, in prospettiva storica, una profonda anomalia. Vi siete mai chiesti perché, nonostante invenzioni epocali come l’aratro pesante, la stampa di Gutenberg, il microscopio composto o persino le leggi del moto di Newton, per millenni la vita dei nostri antenati sia cambiata così poco?
Quest’anno, il Premio Nobel per l’Economia 2025 è stato assegnato a tre studiosi che hanno dedicato la loro carriera a risolvere questo enigma: l’economista storico Joel Mokyr e gli economisti Philippe Aghion e Peter Howitt. Le loro ricerche, sebbene diverse, forniscono una risposta coerente e potente, rivelando i meccanismi unici che hanno innescato e, soprattutto, sostenuto la crescita economica moderna. Le loro scoperte ci offrono quattro lezioni sorprendenti su cosa rende la nostra epoca veramente unica.
L’innovazione è sempre esistita, ma la crescita sostenuta è un’invenzione recente.
Una delle idee più contro-intuitive che emergono dalle ricerche dei premi Nobel è che le grandi invenzioni del passato non hanno generato una crescita economica duratura. Pensiamo a scoperte rivoluzionarie come l’aratro pesante nel Medioevo, i mulini a vento o persino la stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Ciascuna di queste ha avuto un impatto, ma nessuna ha innescato un decollo economico permanente.
I dati storici lo confermano in modo inequivocabile. I grafici del PIL pro capite di paesi come l’Inghilterra o la Svezia mostrano una linea sostanzialmente piatta per secoli. Ci sono stati periodi di prosperità, come per l’Italia durante il Rinascimento, la Svezia durante la sua Epoca di Grande Potenza e l’Olanda durante la sua Età dell’Oro, ma sono stati episodi di crescita che alla fine si sono esauriti, senza riuscire a produrre un decollo definitivo.
La vera rottura è avvenuta con la Rivoluzione Industriale, tra il 1700 e il 1800. Da quel momento in poi, una crescita annua dell’1-2% è diventata la norma nei paesi industrializzati, un fenomeno senza precedenti nella storia umana. Questa prima lezione sfida la nostra idea comune che “invenzione” equivalga automaticamente a “progresso economico”. Chiaramente, mancava un ingrediente fondamentale.
Il segreto non era nelle macchine, ma in una nuova “conversazione”.
Secondo Joel Mokyr, quell’ingrediente mancante non era una tecnologia specifica, ma un nuovo modo di creare e usare la “conoscenza utile”. La sua idea centrale è la sinergia tra due tipi di sapere che compongono questa conoscenza: la conoscenza proposizionale (il “perché” le cose funzionano, ovvero la scienza) e la conoscenza prescrittiva (il “come” farle funzionare, ovvero la tecnologia e le istruzioni pratiche).
Per la maggior parte della storia, questi due mondi erano separati. Gli artigiani sapevano che una tecnica funzionava, per tentativi ed errori, ma non ne capivano i principi scientifici. Dall’altra parte, filosofi e scienziati sviluppavano teorie astratte senza pensare a possibili applicazioni pratiche. Mokyr descrive vividamente questo periodo come:
…un mondo di ingegneria senza meccanica, di siderurgia senza metallurgia, di agricoltura senza scienza del suolo… e di pratica medica senza microbiologia e immunologia.
L’Illuminismo, a partire dal XVII e XVIII secolo, ha costruito un ponte tra questi due mondi. Gli scienziati iniziarono a interessarsi ai problemi pratici degli artigiani e degli ingegneri, mentre questi ultimi iniziarono ad attingere alle scoperte scientifiche per migliorare le loro tecniche. Si è così creato un circolo virtuoso autoalimentato: la scienza migliorava la tecnologia, e la tecnologia forniva nuovi strumenti (come telescopi e microscopi) e nuovi problemi che stimolavano ulteriori ricerche scientifiche. Questo, secondo Mokyr, è stato il vero motore che ha permesso alla crescita di diventare, per la prima volta, un processo sostenuto.
La crescita moderna non è una marea che solleva tutti, ma una tempesta di “distruzione creatrice”.
Se la “conversazione” tra scienza e tecnica descritta da Mokyr ha acceso il motore della crescita, la teoria della “distruzione creatrice” di Aghion e Howitt ne spiega il funzionamento perpetuo. La loro analisi rivela che la crescita economica aggregata, che a livello macroeconomico appare stabile, nasconde in realtà un processo incredibilmente turbolento a livello di singole imprese e lavoratori.
I dati sono impressionanti: negli Stati Uniti, ogni anno, oltre il 10% delle aziende chiude, mentre un numero simile ne nasce. A questo si aggiunge un’incessante riallocazione di posti di lavoro anche all’interno delle aziende che sopravvivono, dipingendo un quadro di perenne fermento.
Il meccanismo descritto da Aghion e Howitt è semplice e potente: le aziende innovano per ottenere un vantaggio sulla concorrenza e guadagnare profitti di monopolio temporanei. Ma così facendo, “distruggono” i profitti e le posizioni di mercato delle aziende che prima erano leader. Questo processo di business stealing (“furto di mercato”), in cui il nuovo soppianta il vecchio, è l’essenza stessa del capitalismo dinamico e della crescita moderna.
Questa lezione cambia radicalmente la nostra percezione. La crescita non è una marea calma che solleva tutte le barche, ma una tempesta che genera vincitori e vinti. Questo implica che una società che vuole crescere deve anche saper gestire le conseguenze sociali di questa distruzione, ad esempio attraverso sistemi di “flexicurity” che proteggono i lavoratori (con sussidi e riqualificazione) ma non i singoli posti di lavoro, permettendo al processo di innovazione di continuare.
A volte, il mercato potrebbe produrre “troppa” innovazione (e quindi troppa distruzione).
Questa è forse l’idea più sorprendente e contro-intuitiva della teoria di Aghion e Howitt. Siamo abituati a pensare che più innovazione sia sempre meglio, ma la loro analisi mostra che non è necessariamente così. Il mercato, lasciato a se stesso, può produrre un livello di innovazione non ottimale, e questo può avvenire in due direzioni opposte.
Motivo per cui la crescita potrebbe essere troppo bassa: Quando un’azienda fa una scoperta, parte del valore di quella conoscenza si diffonde ad altre imprese e alla società nel suo complesso (è uno spillover). L’azienda innovatrice non cattura tutto il beneficio sociale della sua invenzione. Di conseguenza, il suo incentivo a investire in Ricerca e Sviluppo (R&S) è inferiore a quanto sarebbe ottimale per la società. Questo giustificherebbe sussidi pubblici alla ricerca.
Motivo per cui la crescita potrebbe essere troppo alta: Qui entra in gioco l’effetto business stealing. Un’azienda potrebbe investire enormi risorse per creare un’innovazione solo marginalmente migliore della precedente. L’obiettivo non è tanto il beneficio sociale (che è minimo), quanto rubare l’intera, enorme quota di mercato del concorrente. Dal punto di vista della società, questo enorme investimento in R&S per un miglioramento minimo potrebbe essere uno spreco di risorse, che sarebbero state più utili altrove. L’incentivo privato a “rubare il mercato” supera di gran lunga il beneficio pubblico generato.
Questa duplice analisi ci insegna che non esiste una risposta semplice. La necessità di politiche pubbliche, come i sussidi alla R&S, non è scontata. Bisogna valutare attentamente quale dei due effetti prevale, perché un intervento governativo non è sempre necessario o benefico.
Custodire una fragile anomalia
Il messaggio principale che emerge dal lavoro di questi tre premi Nobel è potente e attuale: la crescita economica sostenuta non deve essere data per scontata. È un fenomeno storicamente recente, quasi un’anomalia, ed è fragile. La stagnazione, non la crescita, è stata la norma per la maggior parte della storia umana.
Il nostro progresso dipende da un delicato equilibrio di condizioni: la libertà di ricerca scientifica, un dialogo aperto tra scienza e tecnologia, una competizione di mercato che incentivi l’innovazione e, non da ultimo, un’apertura sociale al cambiamento e la capacità di gestire i conflitti che la “distruzione creatrice” inevitabilmente genera.
In un’epoca di trasformazioni epocali, segnata dall’intelligenza artificiale, dal cambiamento climatico e dal crescente potere di mercato delle grandi aziende, le lezioni di Mokyr, Aghion e Howitt sono più importanti che mai. La domanda che ci pongono è cruciale: sapremo coltivare le condizioni per una crescita creatrice, gestendone al contempo gli inevitabili effetti distruttivi, o rischiamo di scivolare di nuovo verso la stagnazione che ha definito la quasi totalità della nostra storia?
Qui un podcast fatto con AI che discute la loro ricerca.
Nietzsche described the universe as the manifestation of an underlying force which he called will to power. For him, an “insatiable desire to manifest power” is the essence of the universe, and all living things have the same goal, growth. He wrote: “every living thing does everything it can not to preserve itself but to become more.” And to grow and expand, individuals establish for themselves lofty goals that they will (probably) never reach. Aiming high requires overwhelming efforts and the willingness to “risk every danger”. Pain, suffering, and being thwarted in one’s attempts to accomplish a goal are the preconditions for growth and hence an increase in one’s power. [Link to the book]
I have always been fascinated by this idea that individuals are living in a constant desire of self overcoming and yesterday I had the chance to read an interesting debate between Richard Robb and James Heckman. In three articles (see below) they discuss if will to power is compatible with our rational choice theory.
Robb claims that economic models cannot incorporate the Nietzschean concepts and give some examples of individuals getting “utility” not only from the output of an activity but also from the exploration and the effort exerted in that activity. Agents have a “preference” for struggling. For instance, if people go to the gym, if they suffer below cold metallic machines, and they feel pain in all the parts of their bodies is not (only) because they expect a health benefit in the long run, but because they enjoy the experience. Robb also discusses the unconscious nature of human motives and the capacity of humans to rationalize the consequences of choices after a choice is made.
Heckman replied by showing how “overcoming” might be incorporated into standard utility functions and challenge Robb asking what may be the benefit for economics from investigation into the motives underlying human action.
Heckman, J. J. (2009). Comment on” Nietzsche and the Economics of Becoming”(by Richard Robb). Capitalism and Society, 4(1). https://doi.org/10.2202/1932-0213.1052
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The Pareto principle (or the 80/20 rule) says that roughly 80% of the effects come from 20% of the causes. This principle got its name from the Italian economist Vilfredo Pareto, who showed that in 1906 approximately 80% of the land in Italy was owned by 20% of the population. He then carried out surveys on a variety of other countries and found to his surprise that a similar distribution applied.
Many natural and social phenomena follow a Pareto distribution. For instance, 20% of the pea pods produce approximately 80% of the peas, 20% of drivers cause 80% of all traffic accidents, 20% of patients use 80% of health care resources, 20% of criminals commit 80% of crimes, and 20% of infected individuals are responsible for 80% of transmissions of contagious diseases. We can observe this rule even in our daily life: we wear 20% of clothes 80% of times, 20% of items in our cart amounts to 80% total grocery bill, we use 80% of the times 20% of the apps in our smart phones and tablets.
The value of the Pareto Principle is in reminding us to stay focused on the 20 percent that matters. Of all the tasks performed throughout the day, only 20 percent really matter.
In the book 80/20 Principle(Link), you can read more about the Pareto Principle and its applications. There are interesting stories and ideas for applications from life to business. I love this principle because it forces you to reflect about your life and what you do daily. You may realize you are wasting your time in activities that are not productive, important or fun. You can start by finding out what those 80% activities are for you, and what are the other 20% of activities that produce 80% of your result, happiness and meaning. Once you have done this, double down on those efforts as much as possible and then repeat the process.
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Abraham Maslow in his book The Psychology of Science (1966) wrote “I suppose it is tempting, if the only tool you have is a hammer, to treat everything as if it were a nail”.
The law of the hammer is a cognitive bias that involves an over-reliance on a familiar tool. For example, when you learn a new economic concept you may apply it everywhere – which may result in failure to seek out other (potentially more efficient) alternatives.
The concept is attributed both to Maslowand to Abraham Kaplan although the hammer and nail line may not be original to either of them (or more information read here).
Charlie Munger in Poor Charlie’s Almanack (2005) [Link] wrote that one partial cure for the law of the hammer is multidisciplinarity. If a man has a vast set of skills over multiple disciplines, he, by definition, carries multiple tools and, therefore, will limit bad cognitive effects from man-with-a-hammer tendency.In other words, single disciplines are too narrow a perspective regarding many phenomena. The world in which we live in exhibits a level of complexity that makes it impossible to understand the important phenomena that are affecting humans today from the perspective of any single incomplete system of thought.
In short, the mere knowledge from only one domain, is not enough. To be wise, you must develop a true curiosity to read different streams of literature and constantly learn new perspectives of the world.
To know more: read the introduction of The Nature and Method of Economic Sciences: Evidence, Causality, and Ends by R. F. Crespo (2020)[Link].
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