Herbert Gintis – “Rational Choice in Private and Public Spheres”.
Molti di noi vanno a votare, pur sapendo che la probabilità che il nostro singolo voto cambi l’esito di un’elezione nazionale è statisticamente pari a zero. È un paradosso fondamentale della democrazia moderna: compiamo un gesto che, analizzato con la fredda logica dell’interesse personale, appare del tutto irrazionale. Perché spendiamo tempo ed energie per un’azione senza conseguenze dirette?
L’economista e scienziato comportamentale Herbert Gintis offre una serie di risposte potenti. Ma Gintis non si limita a correggere le teorie economiche e politiche tradizionali: le accusa di non aver capito quasi nulla della natura umana. Le sue idee non si limitano a spiegare il voto, ma illuminano l’intera natura del nostro comportamento pubblico, costringendoci a smettere di pensarci come calcolatori isolati di costi e benefici.
Questo articolo esplora quattro delle sue idee più contro-intuitive e d’impatto, che ci costringono a riconsiderare il significato stesso della politica e il nostro ruolo al suo interno.
La politica non è altro che un gioco (con regole morali)
L’idea centrale di Gintis è tanto semplice quanto profonda: la società funziona come un gioco con regole socialmente costruite, e la politica è l’arena in cui affermiamo e cambiamo quelle regole. Ma, a differenza di un gioco da tavolo, le regole sono continuamente contestate. I giocatori, afferma Gintis, sono disposti persino a mentire pur di rottamare le vecchie norme e sostituirle con altre più favorevoli ai propri scopi.
Ciò che rende gli esseri umani unici è la nostra relazione con le regole. Mentre gli animali giocano seguendo schemi inscritti nel loro genoma, noi creiamo le regole, le comprendiamo e, cosa fondamentale, possediamo un senso morale innato legato ad esse. Gintis osserva che persino un bambino di due anni si lamenterà se qualcuno viola le regole di un gioco inventato sul momento, esclamando: “Non è giusto!”. Questa capacità di creare e interiorizzare norme morali è ciò che ci distingue.
La società è un gioco con delle regole, le persone sono i giocatori e la politica è l’arena in cui affermiamo e cambiamo le regole del gioco.
Questa prospettiva è rivoluzionaria perché ridefinisce la politica. Non si tratta più solo di un conflitto di interessi materiali, ma di un dibattito fondamentale, e spesso spietato, su quali siano le regole “giuste” per la nostra esistenza condivisa.
Ma chi decide queste regole e, soprattutto, come arriviamo a un consenso su di esse? Per Gintis, la risposta non si trova nelle menti individuali, ma in qualcosa di molto più strano e interconnesso.
La tua mente non è solo tua: il concetto di “menti intrecciate”
Il modello economico tradizionale dell’ “attore razionale” si basa su un presupposto tanto seducente quanto falso: che ogni individuo abbia credenze e pensieri isolati, un “bagaglio soggettivo” che esiste indipendentemente dagli altri. Gintis sostiene che questa visione sia fondamentalmente sbagliata.
Al suo posto, propone il concetto di “menti intrecciate” (entangled minds) o “cognizione socialmente interconnessa”. Le nostre convinzioni e la nostra conoscenza non risiedono interamente nella nostra testa, ma sono distribuite attraverso le nostre reti sociali. Non pensiamo solo in termini di “le mie idee”, ma soprattutto di “le nostre idee”. Crediamo in certi principi perché sono le idee del nostro gruppo.
Questa “razionalità sociale” è la chiave per comprendere azioni collettive come il voto. L’intreccio delle nostre menti ci permette di sentirci parte di uno sforzo comune e di percepire che la nostra partecipazione ha un significato, anche quando la logica individuale suggerisce il contrario. Non agiamo come individui isolati, ma come nodi di una rete di pensiero condivisa, e questo cambia completamente le carte in tavola.
Il vero motivo per cui voti
Torniamo al paradosso iniziale. Dal punto di vista della teoria della scelta razionale, votare è insensato: ha un costo (il tempo) e un beneficio nullo (non cambia il risultato). La soluzione di Gintis a questo enigma si trova in un concetto che chiama moralità non-consequenzialista. Significa compiere un’azione non per le sue conseguenze, ma semplicemente perché si crede che sia “la cosa giusta da fare”.
Questa non è la ricerca di una gratificazione psicologica. “Non vado a votare perché mi fa sentire bene,” ammette Gintis, demolendo la teoria del “caldo bagliore” (warm glow). “Devo andare a votare, maledizione! Se non lo facessi, mi sentirei in colpa.” È un principio che non si cura del risultato finale, ma si concentra sul valore intrinseco dell’atto stesso.
Questo pensiero riecheggia l’imperativo categorico del filosofo Immanuel Kant. La logica non è: “Voto per far vincere il mio candidato”, ma piuttosto: “Voto perché se tutte le persone con la mia stessa mentalità non votassero, la democrazia crollerebbe”. Si agisce come se la propria scelta fosse una legge universale.
Voto non perché il mio voto possa alterare l’esito di un’elezione, ma perché contribuire all’elezione di buoni leader è la cosa giusta da fare.
Questa idea trasforma radicalmente la nostra percezione dell’elettore. Non siamo calcolatori falliti che non riescono a comprendere la statistica, ma agenti morali che agiscono in base a principi profondi, indipendentemente dall’impatto misurabile delle loro azioni.
Se agiamo per principio e non per le conseguenze, è logico che la nostra arena politica non sia un mercato di risultati, ma un palcoscenico per i nostri principi. È qui che la politica diventa una recita morale.
La politica è una recita morale, non un foglio di calcolo
Gintis sostiene che gli esseri umani non sono motivati da regolarità statistiche. Concetti astratti come “efficienza economica” o misure di disuguaglianza come il “coefficiente di Gini” hanno scarso potere di mobilitazione. Ciò che muove le persone sono le narrazioni morali: storie di giustizia e ingiustizia, di giusto e sbagliato. Per essere efficace, qualsiasi questione politica deve essere inquadrata come una “recita morale” (morality play).
L’esempio che Gintis porta è illuminante:
I baroni ladri del XIX secolo in America non erano infami perché erano baroni; erano infami perché erano ladri.
Il problema non era la loro ricchezza (un dato statistico), ma il modo in cui l’avevano ottenuta (una violazione morale). Questo schema si ripete costantemente. Per dimostrarlo, Gintis analizza il clamoroso fallimento di Occupy Wall Street. Quel movimento, pur avendo un enorme sostegno popolare, non riuscì a incidere “perché non fu in grado di identificare nulla di ingiusto in ciò che i banchieri avevano fatto. Avevano solo fatto un sacco di soldi. Che c’è di male in questo?”. Senza una chiara narrazione di violazione morale, l’indignazione pubblica non ebbe una leva politica.
Questa logica, secondo Gintis, domina la politica contemporanea in modo radicale. Le policy, in sé, non contano nulla. Nelle elezioni del 2016 negli Stati Uniti, gli elettori non si curavano dei dettagli dei programmi fiscali. La battaglia era tra narrazioni morali contrapposte. Il muro di Donald Trump non è mai stato un dibattito sulla sua efficacia pratica, ma un potente simbolo morale su chi è “dentro” e chi è “fuori”. Le pubblicità di Hillary Clinton non spiegavano le sue politiche, ma la ritraevano come una figura materna e attaccavano il carattere morale del suo avversario. La politica è un teatro di principi, non un’analisi costi-benefici.
Qual è la morale della nostra storia?
Le idee di Herbert Gintis ci offrono una lente potente per rileggere il nostro comportamento politico. Le nostre azioni, dal voto alla partecipazione a un movimento, non nascono da un calcolo egoistico, ma da un profondo senso morale non-consequenzialista che opera attraverso le nostre menti socialmente “intrecciate”. La politica non è un mercato, ma un’arena in cui mettiamo in scena le nostre convinzioni più profonde su come il mondo dovrebbe essere.
Questo ci lascia con una domanda cruciale. Se la politica è una recita morale, quale storia ci stiamo raccontando oggi e, soprattutto, quale ruolo scegliamo di interpretare?